Prediligo la confusione della metropoli, le persone che vivono nei miei dipinti sono sempre allegre.
Il mio è un inno alla felicità.
Marco Barberio in arte Moz. Nella sua vita ha sempre coltivato la passione per l’arte e la creatività, anche senza frequentare scuole d’arte. Trascorre la sua adolescenza negli anni ’80, dipingendo con il mito dei graffiti e della pop art americani.

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Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a iniziare il tuo percorso artistico?
Ho sempre avuto un desiderio innato di disegnare e dipingere. Nonostante il mio primo maestro di scuola mi disse che non ero capace, io non riuscivo a fermarmi, dovevo disegnare. Ma fu nel 2013 che un’amica mi convinse a partecipare ad una estemporanea di pittura. Vinsi io, sconosciuto e privo di studi accademici. Certo fu una piccola cosa, ma da quel giorno ho iniziato a fare sul serio, partecipando a mostre e vincendo altre competizioni.
Quali sono i tuoi sogni nel cassetto?
Fra i miei sogni in assoluto ci sarebbe quello di passare alla scultura, senza certamente accantonare la pittura. É una cosa alla quale penso ormai da un bel po’ ed in effetti ho iniziato in modo embrionale a fare qualche esperimento. Si dice che per molti artisti, questo sia un passaggio naturale di maturità. Non so se lo sarà per me, ma di certo sento qualcosa dentro che mi spinge a farlo e come sempre seguirò l’istinto che mi ha sempre indirizzato per il verso giusto.

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Quali finora i momenti più significativi o il momento più significativo del tuo universo artistico?
Sicuramente uno dei momenti che ricordo con più trasporto è stato quando ho ricevuto una notifica via mail nel cuore della notte – non ci potevo credere – ero entrato nella short-list di Art Olympia 2017, una competizione internazionale d’arte contemporanea che si svolge ogni 2 anni a Tokyo. Per dare un’idea della rilevanza di questo concorso, il valore complessivo dei premi per i 100 finalisti, si aggira sui $500.000 in denaro. Tutti i miei sforzi e la mia caparbietà nel partecipare ad un premio così notevole e così lontano dalla mia cultura sono stati alla fine premiati. Lo metto tra i miei ricordi più importanti perché si è trattato del primo riconoscimento di un certo rilievo che ho ricevuto.
Parlaci della tua evoluzione artistica.
Non ho iniziato facendo graffiti, ma è stata per me la prima esperienza artistica di una certa rilevanza. Erano gli anni ottanta, frequentavo ancora il liceo classico. Insieme ad altri tre amici formammo una crew, e mentre per le strade della mia città c’erano solo scritte, noi iniziavamo ad usare i muri come tele. Ipnotizzati dalla cultura americana dell’hip hop e della break dance uscivamo il sabato notte e coloravamo i nostri sogni.
Negli anni novanta mi trovo nel bel mezzo della rivoluzione digitale e la nascita di Internet. Grazie alla predisposizione alle nuove tecnologie e l’amore per l’arte, fondo insieme ad amici una web company con l’incarico di art-director. Nei continui viaggi negli Stati Uniti consolido definitivamente l’attitudine scegliendo soggetti metropolitani per i miei dipinti realistici con richiami a icone pop.

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Attraverso quali tecniche trovi che tu riesca ad esprimerti meglio?
Credo che la mia tecnica sia in continua evoluzione e non so se troverò mai un punto di arrivo. Fondamentalmente uso i colori acrilici, per la loro caratteristica di asciugare immediatamente. Questo favorisce la possibilità di realizzare “scalini” di colore senza correre il rischio di mescolarli. La mia ricerca della corrispondenza del colore a quello reale, è quasi maniacale. Tento di realizzare il senso plastico della figura con il cromatismo. Ogni singola macchia di colore è integra e pura per sé, ma fa parte di un “sistema” che nella sua complessità da vita al tutto. Oltre all’acrilico uso lo spray in alcune produzioni più street-art con, ogni tanto, l’utilizzo di stencil.
C’è stato qualcuno nella tua vita che ti ha influenzato maggiormente?
Edward Hopper mi piace molto, come utilizza la luce e per la scelta dei soggetti. Quando ti piace un artista, non necessariamente ne sei influenzato, o magari inconsciamente lo sei per qualche dettaglio. È vero che i suoi soggetti sono un po’ tristi, malinconici e solitari. Non è certo questo l’aspetto di lui che mi attira di più. Io prediligo la confusione della metropoli, le persone che vivono nei miei dipinti sono sempre allegre. Il mio è un inno alla felicità.

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Cosa provi quando hai davanti una tela bianca?
Difficilmente lascio il posto all’improvvisazione quando mi trovo dinanzi ad una tela bianca. In realtà quando arriva il momento di dipingere ho già le idee molto chiare e tutto programmato. È un dialogo con la mia creatività durante il quale penso, immagino, costruisco mentalmente il mio prossimo dipinto. In questa circostanza tutte le mie energie si concentrano per mescolare ricordi, suoni, profumi, idee sfuggenti. L’ispirazione diventa creazione, tutto si svolge nella mia mente a velocità siderale.
Da che cosa o da chi trai maggiore ispirazione?
Amo dipingere paesaggi metropolitani, fondamentalmente luoghi che visito. Tutto parte da una fotografia che scatto personalmente con cura e con un’idea ben precisa. Prediligo situazioni nelle quali sussistono forti contrasti cromatici, dove meglio posso esprimermi con la mia tecnica. Inoltre dipingo ritratti perché ne sono stato da sempre affascinato. Credo che riuscire a realizzare un ritratto somigliante all’originale sia una magia, ed io trovo la mia massima soddisfazione quando ciò accade. In questo tento sempre di bilanciare le due forze che mi spingono a dipingere: la prima ad uno spiccato realismo l’altra ad una più concettuale semplificazione dei tratti. L’idea è di non cedere troppo ad una delle due, ma di trovare un punto d’incontro adeguato alle circostanze.
Riusciresti a sintetizzare la tua arte attraverso una frase, o magari, attraverso una sola parola?
Realismo, positività, emozione.